London Diaries 3: chi parte e chi resta

Se c’è una cosa che ho imparato di Londra, è che è un porto di mare.

C’è gente che va e gente che viene in tutti i momenti. Le persone per la strada corrono come se fossero inseguiti da qualcuno e ti adegui al loro passo.

Sai che in questa immensa metropoli ci sono anche dei tuoi amici.

Magari non riesci a vederti perché la vita è davvero troppo frenetica.

Troppi assignment, troppe deadline, la tesi che non si scrive da sola.

Alla fine ce la facciamo a vederci. Magari all’ultimo.

Però va bene lo stesso. Ci sono delle persone che all’università non conosci subito, perché magari non frequentate gli stessi gruppi.

Poi magari ti conosci alla fine, facendo degli orribili lavori di gruppo. E anche se magari state in posti super diversi, incontrarsi è sempre bello.

L’amica che ho visto oggi, che per al privacy chiameremo The not so Danish girl, ha detto una cosa molto vera.

“Goditi questa città, per il dovere avrai tempo dopo.”

Ed è vero.

Negli ultimi giorni mi sono concentrata sulle cose sbagliate, senza pensare che, forse, è importante respirare.

Soprattutto con uno spasmodico senso del dovere e dell’ottimizzazione.

Quindi ho detto basta.

Oggi a Londra c’è il sole, è necessario celebrare.

Ho fatto colazione con lei con calma, ho cancellato tutti i miei piani di studio e lavoro calibrati al millimetro e ho fatto quello che mi andava.

Ho passato del tempo con un’amica ne non si sa quando rivedrò, ho fatto un giro nel mio mercato preferito mangiando dell’ottimo cibo.

Ora sto scrivendo perché ho voglia di farlo.

Vado a rincorrere il sole.

Vado a essere più leggera.

A essere più me.

E va benissimo così.

Una giornata particolare

Il 16 agosto è una giornata particolare.

Il bel tempo ci ha già graziati a Ferragosto, dunque con ogni probabilità il tempo fa schifo.

Tutto è intriso di un grigio torpore. Non si ha voglia di fare nulla, davvero niente.

Si vorrebbe rimanere al letto tutto il giorno.

Eppure no, perché alla fine, ogni maledetto 16 di agosto bisogna alzarsi.

Alla fine è un giorno come gli altri. Come ogni giorno ti sveglierai e ti alzerai dal letto.

A colazione mangerai sempre le stesse cose, perché l’essere umano è abitudinario da morire.

Uscirai di casa per fare quello che devi fare.

Rientrerai stanca, perché come al solito hai fato settordici cose più o meno necessarie.

Calcerai le Vans in un angolo.

Ti butterai sul letto e guarderai il soffitto.

Ti verrà da piangere, ma non è detto che tu lo faccia.

Ti dici che piangere non serve a nulla. Tanto non cambia niente.

Farai un respiro profondo.

Ricaccerai indietro le lacrime. Ti legherai i capelli e penserai a cosa fare dopo.

Se fossi stata a casa avresti già cucinato qualche dolce complesso per tenerti occupata. Ma non sarai a casa. Dunque di cucinare non se ne parla.

Ti affaccerai alla finestra.

Guarderei le nuvole rincorrersi sul tetto della scuola davanti a casa, con la BTP Tower che sbuca dietro.

Sai già che tra poco pioverà. Uscire non sarà una bella idea. Ma tu lo farai comunque.

Ti nasconderai in qualche via londinese e proverai a perderti. Sperando di soffocare quel grande dolore che porti nel petto ogni giorno, per tutto l’anno, ma che ogni 16 di agosto emerge sempre prepotente.

Perché il venerdì sera da quella porta non rientra più nessuno.

Perché per ogni cosa bella che succede non hai più quel numero da chiamare.

Perché per ogni consiglio non hai più quella persona su cui contare.

E tu, alla fine, non ti ci sei davvero abituata.

London Diaries 2: La russa

La mia prima domenica londinese ho deciso di dedicarla alla cultura: sarei andata a visitare una mostra. Dopo aver fatto un’accurata ricerca ho scoperto che la Tate Britain, alias uno dei miei musei preferiti, stava ospitando una mostra di Van Gogh. Decidere è stato facile.

Domenica mattina, con la dovuta calma, prendo la metro verso Pimlico e, una volta giunta alla meta, scopro che la mostra è così piena che alle 11 stanno vendendo i biglietti per l’ingresso alle 16. Acquisto il mio biglietto e vado a vedere la collezione permanente dove c’è il mio amato Turner. Poi decido di farmi un giro in centro a arrivo a Carnaby Street.

Dopo pranzo decido di tornare indietro e di bivaccare in un Pret vicino alla Tate per ricaricare il telefono. Mentre stavo leggendo, ad un certo punta spunta una ragazza. Aveva la pelle chiara e gli occhi castani. Indossava un lungo abito floreale e un impermeabile legato intorno alla vita. Completava il look con un mini secchiello di Chanel indossato come fosse una borsa di Carpisa.

“Mi presteresti il caricatore del favore? Devo rientrare a casa e non ricordo il codice.”

“Certo”.

Così si siede vicino a me e inizia a chiacchierare. Dal momento che viene dalla Russia, per la privacy la chiameremo la russa.

Svuota la borsa davanti a me e tira fuori tre iPhone. Ovviamente tutti ultimo modello.

“Nessuno dei tre è carico” mi spiega.

Appena uno dei tre si riprende, decide di fare una diretta su Instagram. Visto che voglio fare la giornalista, posso intervistarla. Ho a disposizione solo tre domande. Inizio a gamba tesa.

“Cosa ne pensi della libertà di stampa?”.

Secondo la mia nuova amica la libertà di stampa deve essere controllata, perché non tutte le persone possono gestire le notizie al meglio. Impedire che determinate notizie vengano diffuse è per il bene dei cittadini. Putin non è cattivo come lo dipingono all’estero, i cattivi sono altri.

Meno male che stavamo parlando inglese, altrimenti non sarei stata capace di nascondere la mia espressione quantomeno dubbiosa. Ero molto tentata di chiederle cosa ne pensasse dell’omicidio di Anna Politkovskaja ma ho mollato il colpo. “Per una volta B. prova ad essere gentile” mi sono detta.

Così le ho chiesto perché fosse a Londra. Mi ha spiegato che era scappata di casa a causa di una serie di divergenze con il padre. Adesso viveva solo dei suoi risparmi.

La mia terza domanda non c’è mai stata perché poi ci siamo messe a parlare d’altro e la russa ha deciso di venire alla mostra con me. Prima però mi ha invitato a casa sua, che era giusto dall’altro lato della strada.

La russa mi informa che ha preso in affitto un appartamento che costa la modica cifra di 200 pounds a notte. Quando entriamo, nel corridoio c’è una fila di scarpe il cui brand più economico è forse Miu Miu. Indovinate pure qual è quello più costoso.

“Hai delle scarpe bellissime” le dico.

“Che numero hai?”

“41”

“Peccato, avessi portato 39 te ne avrei regalato un paio. Devi assolutamente venire a Mosca, così andiamo a fare shopping”

“Temo che i nostri standard siano un po’ differenti”

“Ma ti pare che ti invito a fare shopping e ti lascio pagare?”

Ah scusa tanto. Faccio il visto per il mese prossimo allora.

Nel frattempo, l’occhio mi cade su tre borse di Chanel appese a un armadio. Quella classica è ancora incartata.

“L’ho dovuta ricomprare qui perché la mia l’ho lasciata a Mosca”. Proprio come faccio io con i jeans di Zara.

Mentre la russa si fa una doccia, con ciabatte di plastica rigorosamente Chanel, penso quasi divertita al fatto che sono nel salotto di una semisconosciuta con un guardaroba che vale più della mia retta universitaria, sommando triennale e magistrale.

Perché questa gente la trovo sempre io? Bella domanda.

Uscita dalla doccia la russa riceve una chiamata e mi spiega di non poter più andare alla mostra. Prima di salutarmi mi regala un braccialetto con scritto in russo: “La felicità è qui”. Insiste nel regalarmi delle noci sgusciate e poi ci salutiamo.

“Ci vedremo molto presto” mi promette.

Non so se ci vedremo ancora, ma è stata sicuramente una strana avventura.